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30 Marzo 2020

La terapia miofunzionale è un metodo rieducativo che ha come obiettivo il ripristino del tono e della motilità della muscolatura oro-facciale e quindi la correzione di funzioni che sono appannaggio dell’apparato stomatognatico: deglutizione, masticazione, respirazione e fonazione. 

Spesso questa terapia viene prescritta in caso di deglutizione disfunzionale. Che cos’è? Si definisce come il permanere di uno schema motorio di tipo infantile anche dopo l’eruzione di tutti i denti. La lingua non esercita pressione nella zona delle rughe palatine, bensì effettua una spinta anteriore sulle arcate dentali oppure si può interporre tra di esse. Inoltre viene ingaggiata anche la muscolatura mimica (quella di mento, labbra e guance), che normalmente non entra in gioco durante l’atto deglutitorio e magari non viene invece utilizzata l’appropriata muscolatura masticatoria. 

Nella fase di crescita in cui le ossa sono fortemente plasmabili, uno schema motorio non fisiologico può causare l’insorgenza di alterazioni dento-scheletriche che a loro volta vanno ad influenzare negativamente la funzione, innescando così un circolo vizioso dal quale è difficile uscire se non si agisce in maniera adeguata. 

Quali sono quindi le cause di una deglutizione disfunzionale? Sono diverse e sono legate a stili alimentari, abitudini errate o possono essere di origine ereditaria, genetica o generate da patologie. 

  Per quanto riguarda le prime, si annoverano “errori dietetici” riguardanti il mancato o breve allattamento al seno, lo svezzamento ritardato, l’uso prolungato di biberon e un’alimentazione povera di cibi duri da masticare. Lo svezzamento dovrebbe iniziare attorno al 6° mese e l’uso del biberon non dovrebbe portarsi oltre il 12° mese (avendo comunque cura di scegliere tettarelle adeguate, anatomicamente più simili possibili al seno materno ed evitare assolutamente fori troppo larghi che non stimolano affatto lo sforzo muscolare che invece richiede la suzione e che piuttosto lasciano defluire il liquido nel cavo orale del bambino solo grazie alla forza di gravità). Infine, la funzione masticatoria va stimolata attraverso un aumento della consistenza degli alimenti. Tipicamente ai bambini con deglutizione disfunzionale “non piace la carne”, e spesso il genitore riferisce in effetti difficoltà a masticarla. Infatti quella della carne è tra le consistenze più ostiche da masticare e forse quindi non è un problema di gusto, quanto piuttosto un problema a triturare e gestire un boccone per loro difficile. 

  Invece per quanto concerne le abitudini errate, si intendono tutte quelle parafunzioni che stimolano in maniera errata il distretto orale: succhiamento del dito o del ciuccio, del labbro o delle guance, lapis ed onicofagia. Questi vizi vanno a modificare la posizione linguale e la struttura delle arcate dentali conducendo a malocclusioni e deglutizione disfunzionale. Condizione essenziale infatti per la buona riuscita di una terapia miofunzionale è prima di tutto l’eliminazione di queste abitudini. 

  Tra le cause, venivano infine citati fattori ereditari che possono influenzare la forma del palato e delle vie aeree o il tipo di occlusione; fattori genetici riscontrabili in quadri sindromici con conseguente dismorfosi dell’apparato stomatognatico e poi specifiche patologie, ad esempio quelle molto frequenti nei bambini come ipertrofia adenoide o tonsillare e malattie allergiche che conducono a respirazione orale. 

Questo problema della respirazione orale meriterebbe un capitolo a parte, dal momento che un bambino su tre (secondo recenti statistiche) respira male, cioè con la bocca e che l’aumento di questo fenomeno negli ultimi anni è stato addirittura del 50%. Ma per ora ci basti dire che se il naso è chiuso, la bocca sarà aperta e se la bocca sarà aperta si avranno ripercussioni negative sull’intero organismo (tra cui una deglutizione disfunzionale appunto, ma non solo). Più si respira a  bocca aperta e meno il naso sarà pervio o comunque più facilmente si possono contrarre raffreddori, tonsilliti, otiti etc…; la digestione apparirà più lenta e faticosa per l’aria che si ingerisce durante l’alimentazione; la qualità del sonno subisce un peggioramento, che avrà come conseguenza disturbi quali irrequietezza e cali di attenzione; si possono verificare episodi di scialorrea o enuresi notturna o ancora si possono riscontrare anomalie cranio-maxillo-facciali dovute ad un anomalo posizionamento della mandibola che non si sviluppa normalmente a causa della postura alterata (bassa) della lingua durante la respirazione orale. 

Insomma respirazione orale, abitudini viziate, alterazioni dento-scheletriche e squilibri della muscolatura oro-facciale, non permettono la normale e fisiologica evoluzione della funzione deglutotria, diventando causa ma anche conseguenza di una deglutizione disfunzionale, perché il perdurare di schemi motori atipici potenzia la disfunzione primaria. Come a dire, ad esempio, che se deglutisco male perché sono un respiratore orale, la mia deglutizione disfunzionale renderà ancora più difficile la possibilità che io possa respirare fisiologicamente dal naso. 

Una corretta valutazione delle cause e conseguenze di uno squilibrio muscolare oro-facciale, sarà quindi fondamentale per impostare la giusta terapia, così come fondamentale sarà il coinvolgimento di figure professionali quali l’otorino, l’ortognatodonzista e l’osteopata. 

L’età più indicata per questo tipo di terapia si aggira tra i 6 e gli 11 anni, per un maggior coinvolgimento e motivazione del bambino, ma ciò non toglie che si può agire prima, per lavorare sulla corretta igiene nasale, quindi la corretta respirazione, o l’eliminazione di abitudini viziate o si può lavorare dopo, da adolescenti o adulti. Le variabili sono tante e a causa della multifattorialità del processo patologico non ci può essere un iter terapeutico rigido e univoco, ma tendenzialmente la parte intensiva della TMF (terapia miofunzionale) dura circa 3 mesi, ai quali seguiranno controlli per verificare il consolidamento dei nuovi schemi motori appresi, fino alla totale acquisizione. 

Manuela Ciuffa

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12 Marzo 2020

Questa la domanda che si pongono molte mamme preoccupate, dal momento in cui il loro bambino quando vuole si fa capire, sembra sveglio e ha l’aria di chi comprende tutto (o comunque quasi tutto) quel che gli si dice, ma non parla o parla poco… 

Con buona probabilità siamo di fronte ad un late talker, cioè un “parlatore tardivo”.

Tecnicamente è un bambino che sviluppa competenze linguistiche a 24-36 mesi, età in cui la maggior parte dei bimbi usa già il linguaggio per comunicare e costruire conoscenze sul mondo.

Anche se effettivamente lo sviluppo del linguaggio è caratterizzato da una grande variabilità interindividuale, dovuta tanto alla costituzione biologica del soggetto, quanto a fattori ambientali (stimolazione famigliare, presenza di fratelli e/o sorelle, inserimento precoce a scuola etc…), sono sempre di più i bambini che sono indietro rispetto alle normali tappe di sviluppo (per citarne alcune: le prime paroline intorno ai 12 mesi, la successiva esplosione del vocabolario tra i 18 e i 20 mesi…)

Questi bambini in ritardo non necessariamente svilupperanno un vero e proprio disturbo di linguaggio (dsl), anzi le statistiche sono rincuoranti: solo il 13-20% a 24 mesi è un late talker, e solo il 3-5% evolve in dsl a 36 mesi (età che fa da spartiacque tra un semplice ritardo e la possibilità di diagnosticare un vero e proprio disturbo del linguaggio). Esiste infatti la probabilità che vostro figlio recuperi in circa un anno il divario rispetto ad un fisiologico sviluppo del linguaggio (in questo caso parliamo di late bloomer). 

Per quanto riguarda questa possibilità di recupero, i fattori in gioco sono svariati. Molto dipende dallo sviluppo fonologico, cioè da come si evolve la capacità del bambino di discriminare e produrre suoni, letterine per intenderci, che verranno messi poi in sequenza per formare parole ed in seguito frasi. Inoltre sono coinvolte le abilità di gioco, in particolare il gioco simbolico, cioè il “far finta” e le abilità fini-motorie (delle dita delle mani) e gestuali. 

Quando preoccuparsi?

Però se il vostro bambino a 24 mesi ha un vocabolario composto da meno di 10 parole e a 30 mesi la produzione di parole non ha superato le 50 unità e non è ancora comparsa la capacità combinatoria (cioè la capacità di mettere insieme due o più vacaboli per formare piccole frasi, come ad esempio “voglio pappa”), è allora decisamente il caso di rivolgersi ad uno specialista (Neuropsichiatra infantile, Logopedista) per un consulto. 

Verrà eseguita una valutazione completa, che comprende inizialmente una raccolta anamnestica, cioè un colloquio con i genitori in cui si ripercorrono le tappe dello sviluppo del bambino alla ricerca di fattori di rischio e indici che possano poi orientare meglio la seconda parte della valutazione, cioè test da fare direttamente col bambino. Tali prove indagheranno le abilità comunicativo/linguistiche, di gioco, grafiche e prassiche e potranno includere un’osservazione del distretto oro-facciale o quanto altro possa essere utile per delineare un profilo di sviluppo e decidere se è il caso di intraprendere un iter terapeutico o se si può aspettare, dando in questo caso consigli ai genitori su come stimolare al meglio il bambino, affinché sviluppi il linguaggio e le altre abilità che ne sono precursori. 

Fondamentale affermare che avviare per tempo un trattamento migliora gli esiti finali, quindi non sempre è bene dare ascolto a consigli quali “aspetta che poi parlerà”. Inoltre esiste una forte correlazione tra dsl e dsa (disturbi specifici dell’apprendimento: dislessia, disortografia, discalculia e disgrafia), vale quindi a dire ricadute sulle future competenze di letto-scrittura e calcolo. Arrivare a scuola avendo trattato problematiche sul versante del linguaggio, significa quindi prevenire eventuali difficoltà negli apprendimenti accademici. 

Manuela Ciuffa

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18 Settembre 2015 0

Partendo dal presupposto che una diagnosi precoce incide positivamente sull’outcome di un disturbo di linguaggio, e aggiungendo il dato di fatto che molte mamme si aspettano che siano figure professionali come quella del pediatra (o delle maestre) a segnalare eventuali problematiche nel bambino, ecco qui di seguito alcune indicazioni che possono aiutare il pediatra a rilevare i segni iniziali di un ritardo o di un disturbo di linguaggio e di conseguenza segnalare ai genitori il rischio.

Inizialmente, in caso di dubbi, il medico potrebbe richiedere un esame audiometrico e una visita dal neuropsichiatra infantile. Continuare poi a monitorare l’evoluzione del linguaggio (il progresso degli aspetti fonetico-fonologici, l’accrescimento del vocabolario, lo sviluppo della competenza morfosintattica…) e prestare attenzione ad eventuali comorbiditá (disturbi della relazione, disturbi dell’apprendimento…).

Come valutare tutto ciò? Vagliando innanzitutto la presenza di alcuni indicatori di rischio:

  • familiarità per ritardo/disturbo di linguaggio
  • presenza di otiti ricorrenti nei primi 2-3 anni di vita
  • difficoltà di comprensione del linguaggio verbale
  • produzione inferiore alle 10 parole a 24 mesi
  • produzione inferiore alle 50 parole e assenza di combinazione di almeno 2 parole a 30 mesi

Se a 30-36 mesi il bambino sembra presentare un significativo ritardo di linguaggio, ed in particolare questo include difficoltà di comprensione, il pediatra dovrebbe consigliare ai genitori di intraprendere un trattamento, che includerà un’iniziale visita dal neuropsichiatra infantile e poi l’invio dal logopedista; viceversa potrebbe programmare dei follow-up ravvicinati e nel frattempo dare consigli ai genitori su come stimolare adeguatamente il figlio, se non sono evidenti le problematiche a livello di comprensione. Tuttavia, se la situazione non migliora nell’arco di altri 6 mesi, il bambino è ormai giunto ad un’età spartiacque tra un ritardo e un disturbo di linguaggio, quindi sarà il caso che il bambino venga preso in carico dallo specialista.

Potrebbe essere utile uno strumento come il Primo Vocabolario del Bambino (un questionario per la valutazione del linguaggio nei primi anni di vita).

Manuela Ciuffa

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2 Settembre 2015 0

Per i bambini il gioco è la realtà attraverso cui apprendono, si relazionano, crescono e si divertono. Giocare è quello che vorrebbero (e devono!) fare per la maggior parte del loro tempo.
Potremmo grossolanamente distinguere due categorie di gioco:

  • il gioco di esercizio (0-24 mesi circa), coinvolge le strutture percettive e motorie, il bambino sperimenta le capacità del proprio corpo, appunto esercitandosi e cimentandosi in attività (giochi) motorie di vario tipo;
  • il gioco simbolico (dai 24 mesi circa), in cui sono implicate capacità di simbolizzazione, rappresentazioni mentali: immaginare oggetti non presenti, evocare situazioni e contesti…
    Quindi gioco simbolico significa “agire come se”, “far finta di” e implica la presenza dell’oggetto neutro (cioè un oggetto usato come se fosse un altro, ad esempio una penna usata come fosse un cucchiaino).

Quello che ci interessa particolarmente è proprio questo secondo tipo di gioco, dal momento che le capacità simboliche necessarie per metterlo in atto sono fortemente collegate al linguaggio: la capacità di usare le parole intese come simboli al posto dell’oggetto reale affonda le sue radici nella competenza simbolica emersa nel e con il gioco.

I processi che devono maturare al fine di sviluppare un buon gioco simbolico sono i seguenti:

  • processo di decentramento (capacità di eseguire azioni di gioco su altri)
  • processo di decontestualizzazione (capacità di eseguire azioni della vita reale ma in contesti diversi da quelli ordinari)
  • processo di integrazione (capacità di eseguire azioni a diversi partner in sequenza e coordinare diverse azioni in strutture temporali e causali coerenti)

Le tappe dello sviluppo del gioco del bambino

Ripercorriamo insieme le tappe di sviluppo del gioco di un bambino, precisando che la schematizzazione non è realmente così rigida e che quindi alcune tappe potrebbero accavallarsi:

  • prima dei 12 mesi: attività unitarie funzionali (un unico effetto su un singolo gioco, ad es. scuotere sonaglino, tirare una palla… attività apprese per imitazione)
  • dai 12 ai 18 mesi: schemi di azione con oggetti e attività combinatorie (usa oggetti simili ai reali e associa due funzioni, anche se in modo inappropriato, ad es. mette un coperchietto su una tazzina)
  • dai 18 ai 24 mesi: schemi di azione e attività combinatorie (stavolta le funzioni vengono associate in modo appropriato ottenendo un risultato funzionale, ad es. il coperchio sulla pentolina, inoltre compare l’oggetto neutro)
  • dai 24 ai 30 mesi: sequenze di simbolizzazione (il bambino “fa finta”, gioco simbolico che è prima autodiretto e poi eterodiretto, quindi ad es. il bambino fa finta di bere e in un secondo momento farà bere anche mamma o dei pupazzi; tali azioni simboliche saranno poi anche messe in sequenze temporali, ad es. prima fa finta di mettere lo zucchero e poi fa finta di girarlo)
  • dai 30 ai 36 mesi: drammatizzazione (rievoca in maniera canonica eventi della vita quotidiana)
  • dopo i 36 mesi: alta simbolizzazione (le drammatizzazioni riguardano anche altri bambini che collaborano nello svolgere un tema)

In definitiva, dall’osservazione di gioco di un bambino si possono ricavare informazioni preziose ed importanti sul suo sviluppo cognitivo, relazionale e comunicativo-linguistico.

Manuela Ciuffa

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4 Maggio 2015 0

Vi presento la nuova collaborazione aperta presso lo studio di Via Tacito 9 ad Albano Laziale con la dott.ssa Chiara Fantacci, psicologa dell’età evolutiva. Sarà possibile chiedere un consulto alla dottoressa previo appuntamento contattandola al numero 333 894 5577.

Ho chiesto alla dottoressa di presentarsi e offrire una breve panoramica delle consulenze che può offrire.

Chi sono

La mia formazione accademica si esplicita attualmente con la frequentazione della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale presso l’Istituto A.T. Beck, diretta dalla Dottoressa Antonella Montano e ufficialmente riconosciuta dal MIUR. Ho conseguito la laurea magistrale, con il massimo dei voti, in Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione nel 2011. Ho trascorso, inoltre, un periodo di frequentazione volontaria presso il Reparto di Neuropsichiatria Infantile dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù. Sono iscritta all’Ordine degli Psicologi del Lazio – Nr. 19486.

Ciò che motiva il mio lavoro è il desiderio di offrire sostegno, professionalmente valido, rivolto ad una tra le fasi di sviluppo più delicate e, nello stesso tempo, turbolente della vita: l’età evolutiva. A tal fine cerco di mantenere la mia formazione continuamente aggiornata ed aperta a nuovi stimoli professionali e/o personali.

Di cosa mi occupo

  • Psicodiagnosi, supporto psicologico
  • Consulenze per gli insegnanti
  • Difficoltà di crescita
  • Disturbi del sonno
  • Gelosie tra fratelli
  • Disturbi d’ansia e paure
  • Difficoltà emotive e/o relazionali
  • Problemi comportamentali
  • Difficoltà di attenzione e iperattività
  • Percorsi di orientamento scolastico e professionale
  • Adolescenze problematiche
  • Mancanza di comunicazione
  • Riabilitazione neuropsicologica
  • Separazione genitoriale
  • Sostegno psicologico rivolto al bambino/adolescente
  • Sostegno psicologico rivolto alla coppia genitoriale

Sono a disposizione di tutti i genitori che vogliano avere un parere professionale sul percorso da far intraprendere ai propri figli. Potete contattarmi al numero 333 894 5577 per fissare un appuntamento presso lo studio di Albano Laziale.

 

Manuela Ciuffa

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11 Febbraio 2015 0

Il primo colloquio con la logopedista è innanzitutto un momento per “conoscere e farsi conoscere”, nonchè uno spazio di ascolto per esprimere dubbi e aspettative e ricevere chiarimenti.

É poi di fondamentale importanza per un iniziale inquadramento diagnostico del caso, che guiderà in parte le scelte nei successivi incontri di valutazione. Infatti verranno ripercorse, attraverso domande volte ai genitori, le tappe dello sviluppo del bambino.

Partendo dal presupposto che una buona diagnosi non è solo un’etichetta da dare ad un bambino, bensì l’inizio di scelte terapeutiche mirate e che concorre alla diagnosi una raccolta anamnestica ben condotta, allora scegliamo le giuste domande per avere le giuste risposte!

Al seguente link puoi trovare la raccolta anamnestica per il primo colloquio con la logopedista.

Manuela Ciuffa

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2 Ottobre 2014 0

La legge 289/90 è stata creata per aiutare le famiglie di bambini affetti da DSA a sostenere le spese necessarie per il benessere del figlio, ad esempio per l’acquisto di per PC, software per computer, medici specialisti (logopedista, psicologa).

Requisiti per l’indennità di frequenza DSA

Ecco i requisiti necessari per ottenere l’indennità di frequenza:

  • età del figlio fino a 18 anni;
  • essere cittadino italiano o UE residente in Italia, o essere cittadino extracomunicario in possesso del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo;
  • essere stati riconosciuti “minore con difficoltà persistenti a svolgere le funzioni proprie dell’età” (L. 289/90) o “minore con perdita uditiva superiore a 60 decibel nell’orecchio migliore”;
  • frequenza ad un centro di riabilitazione, a centri di formazione professionale, a centri occupazionali o a scuole di ogni grado e ordine;
  • non disporre di un reddito annuo personale superiore a Euro 4.795,57.

Per il 2014 l’importo è di 279,19€ al mese. L’indennità di frequenza viene erogata  durante tutto l’anno scolastico (9 mesi) per scuole di ogni ordine e grado, compreso l’asilo nido. Ogni anno a giugno l’indennità viene sospesa, andrà presentato a settembre il certificato di frequenza all’INPS e aspettare che venga nuovamente avviata, ci potrebbe volere qualche mese, ma verranno comunque accreditati tutti gli arretrati.

Procedura per la richiesta dell’indennità di frequenza

La prima cosa da fare è andare dal medico curante o dal pediatra e spiegare che si vuole attivare la procedura per la richiesta di indennità di frequenza all’INPS. Il medico dovrà emettere un certificato, da inviare per via telematica all’INPS, dove si attesta che il bambino è affetto da dislessia.

A questo punto bisogna recarsi presso il patronato dell’INPS entro 30 giorni e avviare la procedura di richiesta. Ora non resta che attendere (anche diversi mesi) che l’INPS vi contatti per fissare l’appuntamento con il medico legale.

La visita con il medico legale potrebbe essere stressante per vostro figlio, ecco perché è meglio prepararlo accuratamente, rassicurandolo e spiegandogli tutto quello che accadrà. Alla visita bisogna portare:

  • Tutta la documentazione riguardante la dislessia di vostro figlio (compresi i quaderni di scuola, se il bambino già scrive)
  • La documentazione raccolta durante le visite specialistiche (otorino, oculista, psicologo, neurologo)
  • La documentazione sulle spese da sostenere (terapia logopedica per DSA, ripetizioni, programmi compensativi, acquisto di PC e software…).
Dopo la visita non è detto che la richiesta sia accettata, per averne la certezza occorre attendere un po’ di tempo e la conferma arriva via raccomandata. Nella risposta viene indicato se la domanda è stata accettata del tutto o solo in parte e qual è la data di scadenza, dopo la quale andrà richiesto un nuovo appuntamento per analizzare la situazione del bambino.
A questo link c’è una documentazione più specifica che illustra tutta la procedura.
A questo link è possibile scaricare tutta la modulistica INPS “Autocertificazione dell’iscrizione/frequenza scolastica o universitaria di figli.”

 

 

Manuela Ciuffa

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27 Giugno 2014 0

Ecco il decalogo messo a punto dalla FLI (Federazione Logopedisti Italiani) per proteggere la voce e mantenerla bella il più a lungo possibile.

1. Imparate a respirare bene prima di iniziare a parlare e mentre state parlando: eviterete così di rimanere senza fiato e sforzare le corde vocali.

2. Avvicinatevi alle persone per parlare: eviterete di dover urlare.

3. Guardate in faccia le persone con cui state parlando: sarà più facile capirsi senza dover aumentare il volume.

4. Se qualcuno sta parlando, aspettate che finisca prima di iniziare voi: in questo modo non sarete costretti ad alzare la voce.

5. Se potete, non bisbigliate: è una cattiva abitudine che stanca le corde vocali.

6. Se siete raffreddati, avete l’influenza o il mal di gola, cercate di non parlare troppo: affatichereste inutilmente la voce.

7. Non parlate mentre state facendo ginnastica, correndo o spostando oggetti pesanti: sarebbe un eccessivo sforzo per le corde vocali.

8. In alcune posizioni, la voce fa più fatica a venire fuori: non sforzatela.

9. Cercate di parlare meno quando siete al parco giochi, allo stadio, in cortile, a un concerto o in posti molto grandi e affollati: per farvi sentire sareste costretti a sforzare la voce.

10. I luoghi molto freddi, troppo caldi o dove ci sono persone che fumano non sono il posto ideale per esercitare la voce.

Manuela Ciuffa

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27 Maggio 2014 0

Fin dagli anni ’60 sono stati numerosi gli studi che davano risalto all’importanza dell’input linguistico fornito dal genitore per lo sviluppo del linguaggio del proprio figlio. Madre e bambino hanno entrambi un ruolo attivo e giungono insieme alla costruzione e condivisione di conoscenze.

Esistono 5 stili genitoriali che ora brevemente riassumo:

TUTORIALE: la mamma ripete, espande o riformula i concetti espressi dal figlio; richiama l’attenzione su esperienze passate condivise e incoraggia il figlio con lodi verbali e non-verbali

CONVERSAZIONALE: la mamma cerca di mantenere attive le linee di comunicazione con domande aperte, commenti o comportamenti empatici o fornendo auto-risposte a domande formulate da lei stessa

DIDATTICO: come una brava maestra la mamma rivolge al bambino domande chiuse, chiede di ripetere o denominare e fornisce informazioni e dimostrazioni o correzioni laddove necessario

CONTROLLO: la mamma interviene verbalmente o non per dirigere o modificare le azioni e l’attenzione del bambino verso un’altra situazione, diversa da quella che stava già agendo il figlio

ASINCRONICO: la mamma ignora comportamenti del figlio rivolti a lei e sovrappone le sue azioni (o parole) a quello che il bambino stava già facendo, cercando di cambiare argomento

 

I primi tre stili sono quelli vincenti, quelli cioè che una volta adottati stimoleranno al meglio il vostro bambino. Perciò insegnate, conversate e “fate da tutor” a vostro figlio, ponendo attenzione alle sue iniziative così da accoglierle e condividerle; senza pretendere di avere il controllo ma lasciando ampio spazio alla fantasia!

Manuela Ciuffa


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